Harvard ottiene una vittoria giudiziaria contro Trump
Una giudice federale di Boston ha annullato la sospensione dei 2,6 miliardi di dollari di fondi federali destinati ad Harvard, disposta dall’amministrazione Trump con la motivazione di combattere l’antisemitismo. La decisione non chiude però lo scontro, che potrebbe arrivare fino alla Corte suprema.
L’anno accademico ad Harvard si apre con un successo legale. L’università di Cambridge, in Massachusetts, ha ottenuto il 3 settembre una sentenza favorevole in tribunale dopo che i suoi fondi federali erano stati congelati dall’amministrazione Trump in aprile. La misura, pari a 2,6 miliardi di dollari, era stata giustificata con la necessità di contrastare l’antisemitismo, ma la giudice Allison Burroughs l’ha dichiarata illegittima.
La decisione non mette fine alla vicenda. La Casa Bianca può impugnare la sentenza fino alla Corte suprema e dispone ancora di altri strumenti di pressione contro le università. Harvard, pur esprimendo soddisfazione, mantiene prudenza: il presidente Alan Garber ha spiegato che l’ateneo continuerà a monitorare le implicazioni giuridiche e a seguire con attenzione l’evoluzione del contesto.
Donald Trump accusa da mesi i principali atenei dell’Ivy League e l’università di Los Angeles di aver tollerato manifestazioni e discorsi antisemiti legati alla guerra a Gaza. Secondo il presidente, queste istituzioni rappresentano la cultura progressista e woke da lui avversata. Da qui una serie di misure punitive: sospensione di fondi, limitazioni ai visti per studenti stranieri e tagli a programmi di borse di studio.
Nella sua sentenza, la giudice Burroughs ha ribadito che combattere l’antisemitismo è necessario, ma non può avvenire a scapito della libertà di espressione. Ha inoltre criticato gli accordi proposti dal governo alle università per riottenere i fondi: intese che prevedono il versamento di centinaia di milioni di dollari all’amministrazione, la consegna dei dati di ammissione e la supervisione da parte di un funzionario federale.
Harvard ha scelto la via del contenzioso, basando il proprio ricorso sulla violazione del Primo emendamento della Costituzione e del principio di due process. Parallelamente, ha avviato iniziative interne, come una missione di valutazione dell’antisemitismo nel campus, giudicate “tardive ma lodevoli” dalla giudice. Columbia, al contrario, ha firmato un accordo con il governo a fine luglio: in cambio del versamento di 221 milioni di dollari e della nomina di un supervisore, ha recuperato 440 milioni di finanziamenti e la chiusura delle indagini.
All’interno di Columbia il compromesso ha generato proteste: alcuni docenti denunciano il rischio di una minaccia senza precedenti alla libertà accademica. Michael Thaddeus, presidente dell’Associazione americana dei professori universitari, ha avvertito che il governo si mostra “così ostile all’istruzione” da spingersi a definire le università un nemico.
Anche altri atenei devono scegliere la propria linea. Brown ha firmato un accordo per 50 milioni di dollari, mentre UCLA è chiamata a rispondere a una richiesta di 1 miliardo. Secondo il diplomatico e docente a Columbia Jean-Marie Guéhenno, l’errore delle università è stato quello di non coordinarsi, lasciando al governo una posizione di forza nelle trattative.
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